Nardò, 24 dicembre _ “Riconosca la fede cattolica la propria glorificazione nell’umiltà del Signore, e gioisca la Chiesa, corpo di Cristo, per i misteri della sua salvezza, perché, se il Verbo di Dio non si fosse incarnato e non avesse abitato fra noi, se lo stesso Creatore non fosse disceso per unirsi intimamente alla creatura e riportare, mediante la sua nascita, la condizione dell’uomo vecchio ad una nuova origine, tuttora regnerebbe la morte da Adamo sino alla fine. […] Queste opere del Signore nostro, carissimi, ci sono utili non solo per il loro mistero, ma anche per l’esempio che propongono alla nostra imitazione: di qui l’impegno a ricordarci che dobbiamo vivere nell’umiltà e nella mansuetudine del Redentore nostro, poiché, come dice l’Apostolo, se soffriamo con Lui, con Lui anche regneremo”1 .

Con queste parole il papa San Leone Magno esortava i fedeli a guardare all’evento del Natale del Signore: contemplandolo come un mistero incommensurabile, attraverso il quale la carne è divenuta cosa sacra, perché abitata da Dio, ma anche assumendolo come un esempio, una traccia luminosa grazie alla quale orientare i passi della propria vita. Guardando il presepio, infatti, possiamo cogliere il segno tangibile di una profonda umiltà che caratterizza la nascita di Gesù; umiltà nella povertà della grotta, umiltà nell’indigenza di Maria e Giuseppe, umiltà nella predilezione verso i pastori, ultimi dell’Israele del tempo, ma primi destinatari dell’annuncio della salvezza.

Dio ha scelto questa virtù come veicolo privilegiato, che permette alla sua Grazia di irraggiarsi sulla nostra vita: per fare spazio a Dio, è necessario “farsi da parte”! In una lettera scritta all’amico Dioscoro, così Sant’Agostino afferma l’assoluta necessità dell’umiltà nella vita del cristiano: “A Cristo, caro Dioscoro, vorrei che ti assoggettassi con la più profonda pietà e che, nel tendere alla verità e nel raggiungerla, non ti aprissi altra via che quella apertaci da lui il quale, essendo Dio, ha veduto la debolezza dei nostri passi. La prima via è l’umiltà, la seconda è l’umiltà e la terza è ancora l’umiltà: e ogni qualvolta tornassi a interrogarmi, ti risponderei sempre così. Non perché non ci siano altri precetti degni d’essere menzionati, ma perché la superbia ci strapperà senz’altro di mano tutto il merito del bene di cui ci rallegriamo, se l’umiltà non precede, accompagna e segue tutte le nostre buone azioni in modo che l’anteponiamo per averla di mira, la poniamo accanto per appoggiarci ad essa, ci sottoponiamo ad essa perché reprima il nostro orgoglio”2 .

Vogliamo allora accogliere l’invito rivoltoci dal Bambino di Betlemme a ripensare il tempo che stiamo vivendo provando a ricalibrare le nostre priorità su questa importante e preziosa virtù. La crisi generata dalla pandemia ci ha violentemente messo davanti la verità che non siamo padroni degli eventi, non possiamo elaborare un solo progetto che non risenta dellaprecarietà, della fragilità e dell’instabilità che caratterizza il nostro vivere; umiltà, in questo senso, significa anzitutto fiducia nel Signore. Egli regge ogni cosa nelle sue mani e, se glielo permettiamo, può guidarci e farci dono della sua pace; quella stessa pace che anche la santa Famiglia potè sperimentare in mezzo alle tante difficoltà e imprevisti cui fu sottoposta dopo la nascita di Gesù.

Nell’umiltà si genera la fiducia, e dalla fiducia scaturisce la pace. Essere umili significa anche non sentirsi unici destinatari dei propri sforzi; in ciò, umiltà significa anche sollecitudine per il fratello. La crisi che stiamo vivendo ha fatto emergere vecchie e nuove situazioni di povertà, che ci interpellano in prima persona: proviamo a leggervi in ciò un momento di grazia, in cui abbiamo l’occasione concreta di tenderci le mani gli uni gli altri, senza vergogna, senza timori o reticenze, ognuno per ciò che può, nella convinzione che l’umanità autentica risplende dal “custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore” 3.

Chiediamo dunque per questo santo Natale il dono di risorgere dalla fatica presente col cuore umile, trasfigurati, attraverso il dolore, nella vita nuova della autentica figliolanza divina e fratellanza cristiana, in quello stato di pace profonda di chi sa che tutto si volge al bene, per coloro che amano Dio: in questo modo saremo incarnazioni viventi e concrete del mistero che contempliamo nella grotta di Betlemme. Nardò, Natale del Signore 2020 +Fernando Filograna Vescovo