Roma,16 marzo 2018_di Ottavio Mancuso_Sono da poco passate le 9 del mattino, quando il responsabile del servizio politico dell’Agi, Vittorio Orefice, si appresta a entrare a Montecitorio. È il 16 marzo 1978 e lo attende una giornata faticosa perché quella mattina il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, deve presentarsi alla Camera per chiedere la fiducia al suo quarto governo. Davanti all’ingresso di Montecitorio alcuni agenti di polizia in motocicletta parlano in modo concitato con la centrale. La curiosità induce il cronista ad avvicinarsi: dalla radio si sente gracchiare una voce che parla di un rapimento e di poliziotti uccisi.
Orefice chiede dettagli e un agente gli riferisce che è stato sequestrato Aldo Moro. Il cronista dell’Agi si precipita nella sala stampa, ancora deserta a quell’ora, e si attacca al telefono chiamando una fonte al Viminale. Passano pochi minuti e ottiene la conferma che il presidente della Democrazia Cristiana è stato sequestrato e gli uomini della scorta sono stati uccisi. Alle 9:28 le telescriventi dell’Agi battono il primo, asciutto, lancio: “L’on. Aldo Moro è stato rapito. La notizia è stata confermata all’Agenzia Italia dal ministro degli Interni. Il fatto sarebbe avvenuto una ventina di minuti fa nei pressi dell’abitazione dell’on. Moro. Il capo della Polizia Parlato e il ministro degli Interni Cossiga si sono immediatamente recati sul posto”.
La notizia piomba nelle redazioni dei quotidiani e della Rai. Secondo lancio dell’Agi alle 9:30: “Dalle prime notizie risulta che i membri della scorta sarebbero stati uccisi”. Passano pochi minuti e la seconda rete della Rai interrompe le trasmissioni e lancia un’edizione straordinaria del tg nella quale, citando i pezzi dell’Agi, dà agli italiani la notizia che avrebbe cambiato la storia del nostro Paese.
Le voci delle ultime settimane trovano conferma
Già da qualche settimana nelle redazioni di giornali e agenzie di stampa circolavano voci preoccupate di gruppi estremistici in procinto di organizzare azioni eclatanti. Ma nessuno immaginava che i terroristi fossero in grado di portare un attacco di tale portata al cuore dello Stato. Attacco, peraltro, condotto con metodi militari tanto sofisticati. La notizia del rapimento di Moro e dell’uccisione degli uomini della scorta coglie perciò il Paese impreparato: quel giorno gli italiani diventano finalmente consapevoli della estrema gravità del fenomeno terroristico.

Dopo i primi momenti di sgomento, le redazioni di quotidiani e agenzie di stampa si mobilitano. Vengono subito mandati giornalisti in Via Fani (luogo del rapimento), sotto casa della famiglia Moro, al Viminale, in Questura, in Prefettura. Le redazioni politiche presidiano la Camera, il Senato e Palazzo Chigi: deputati e senatori affollano la sala stampa per avere notizie.
Tanto meno esistono ancora i computer. Bisogna ricorrere alle cabine telefoniche della Sip e agli apparecchi di bar e ristoranti per dettare i pezzi in redazione e trasmetterli ai giornali attraverso le telescriventi. Ma la difficoltà maggiore è data dalla confusione della macchina organizzativa dello Stato che mostra di essere impreparata per un evento di tale portata. I tradizionali canali informativi dei giornalisti nelle sedi istituzionali saltano: c’è una grande difficoltà nell’ottenere informazioni precise su quanto stia davvero accadendo.
Circolano notizie di ogni genere, per lo più false
Le ricostruzioni della dinamica del sequestro si susseguono, arricchendosi ogni volta di particolari che correggono o addirittura smentiscono la versione immediatamente precedente. Senza contare che la psicosi del momento dà libero sfogo a quelle che oggi chiameremmo fake news, con il diffondersi per l’intera giornata di notizie di esplosioni, sparatorie e attentati in diversi punti della città, poi rivelatisi tutte false. A un certo punto, nella sala stampa della Camera, si sparge addirittura la voce, falsa anche questa, di un colpo di Stato in atto e di carri armati che circondano Montecitorio per proteggere i deputati.

Rileggendo le centinaia di take trasmessi dall’Agi, riaffiorano, minuto per minuto, gli eventi concitati e drammatici di quella giornata ma anche il clima pesante che si respirava quel giorno nel Paese: una pagina di cronaca che, quaranta anni dopo, diventa testimonianza e documento storico. Dopo meno di mezz’ora dal primo lancio, l’Agi dà conto dei primi dettagli sulla dinamica del sequestro. Mezz’ora dopo arriva la rivendicazione delle Brigate Rosse. Si diffonde la notizia, poi rivelatasi falsa, che Moro è ferito ed è ricoverato al policlinico Gemelli. Ben presto si viene a sapere che si tratta invece di uno degli uomini della scorta, Francesco Zizzi, che di lì a poco spirerà durante un disperato intervento chirurgico. Intanto si riunisce il Consiglio dei Ministri e Andreotti riceve a Palazzo Chigi le delegazioni di tutti i partiti.
Sul fronte economico, la lira perde terreno cedendo pesantemente nei confronti del dollaro e le contrattazioni alla Borsa valori di Milano sono praticamente bloccate. Circa due ore dopo il rapimento arrivano la dichiarazione ufficiale del presidente della Repubblica, Giovanni Leone, il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi e l’appello del ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, che chiede ai cittadini e al mondo dell’informazione di collaborare con inquirenti e forze di polizia. Il procuratore capo della Repubblica di Roma, Giovanni Di Matteo, fa una dichiarazione pubblica e affida le indagini al giudice istruttore, Luciano Infelisi.
Volantini delle Br vengono ritrovati nello stabilimento di Genova dell’Ansaldo e i brigatisti rinchiusi nel carcere di Torino si lasciano andare a manifestazioni di giubilo dopo aver appreso la notizia del rapimento di Moro. Nel mondo politico si levano voci che chiedono un inasprimento delle pene per i terroristi e il segretario del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa, arriva a chiedere il ripristino della pena di morte. Andreotti interviene alla Camera per chiedere la fiducia e, alla fine del discorso, si reca al Senato; quindi, insieme a Cossiga, sale al Quirinale per conferire con il presidente Leone.